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mercoledì 10 agosto 2011

Casa, vecchia casa

Questi due ultimi giorni sono mancata ancora alle mie consegne di scrittura "creativa" o "ricreativa".
Sono stata a zonzo tra uffici notarili, poiché mia madre ha deciso di vendere la casa del Trentino e trasferirsi qui in Veneto, vicino alla sua bimba alta (come dice lei), e rotondetta (aggiugo sempre io - vista la mia stazza abbondante e la sua minuta).

La casa che ha venduto è quella dove sono cresciuta. Una casa a schiera tipica degli anni Settanta, squadrata, tutta finestre e rifiniture in alluminio rosso. Poi mia mamma andava pazza per il rosso così anche gli arredi e le tappezzerie erano rossi.
Rosso dentro e rosso fuori, rossi i piatti e le lenzuola...
vi giuro che in casa mia di rosso c'è proprio poco per non dire nulla!

Vivevo lì dall'età di sei mesi, quindi praticamente da sempre. Era un luogo ideale per crescere: un quartiere nuovo, immerso nel verde, con tutti i must della vita periferica (supermercato, scuola, farmacia, dottore, piscina, parchi, biblioteca ecc.)
La strada dove vivevamo era privata e quindi si stava sempre fuori (bello o brutto tempo) con i bambini del vicinato. Mia madre ripete sempre che eravamo una ventina e ci spostavamo sempre in branco. E con la vita di branco sono cresciuta: una nerd praticamente.
Non so perché ma finchè non sono arrivata all'università sono sempre stata l'emarginata che cercava a tutti costi di omologarsi agli altri per essere accettata.
Certo non deponeva a mio favore l'amore sviscerato per i libri (che ho tutt'ora) e un linguaggio "forbito" che sfoggiavo come una corazza. Non aiutava nemmeno una certa rigidità morale e la fissa di essere ligia a tutte le regole impartite a casa, a scuola, al catechismo, agli scout ecc.
Ma per il resto ero normale, credo. Anche carina di aspetto.
Ma con i miei coetanei non ho mai ingranato, ancorché cercassi spasmodicamente di essere "uguale".
Quando me ne sono andata per fare l'università, sono proprio uscita. Salvo le due compagne di banco delle superiori e qualche amico qua e là, non ho più mantenuto rapporti con nessuno.
Dall'appartamento dell'università, a quello delle colleghe di lavoro, a quello del matrimonio, non sono più tornata a "casa" e quindi tutto sommato questa vendita non mi tocca più che tanto se non per questa idea romantica della casa "avita".

Ma poi, anche se per anni ho creduto di aver avuto un infanzia felice (perché tutti i bambini sono convinti che quello che hanno avuto è "normale"), con il senno di poi mi rendo conto che anche fra le mura domestiche non è che me la sia proprio spassata. Mia madre ha avuto spesso attacchi di depressione, in qualche occasione anche accompagnati da problemi di alcool, mio padre era un padre "padroncino", convinto che le donne siano a servizio degli uomini, che la loro istruzione sia più che altro un sovrappiù, totalmente autistico dal punto di vista sentimentale (ricordo solo due occasioni in cui mi abbia toccata e nessuna delle due è un ricordo piacevole). La nonna paterna mi lanciava delle monete perché non entrassi in casa sua e la nonna materna mi subbissava di richieste emotive per essere compensata dello scarso affetto mostratole dalla figlia. Di nonni maschi non ne ho avuti.
Mio fratello aveva 5 anni più di me, ha avuto i suoi problemi e la mia venerazione, perché sì lo veneravo proprio, la trovava fastidiosa.

Messa così mi rendo conto che sembra proprio uno schifo, ma io non l'ho mai vissuta così. Era normale, era la mia famiglia ed io voglio bene ad ognuno dei suoi componenti (vivi e morti che siano). C'erano naturalmente tante e tante cose belle!
Mio babbo mi ha avvicinato al mio scrittore preferito Tolkien, mia mamma si alzava tutte le mattine a farmi la colazione, anche quando era super depressa (e magari non preparava nessun altro pasto!), mia nonna materna mi ha sempre fatto un bel guardaroba e mi ha regalato le lezioni di musica che tanto desideravo, quando riusciuvo ad entrare in casa della nonna paterna, trovavo sempre un bicchiere pieno di nocciole pulite pronte da mangiare e quando mio fratello si degnava di portarmi con lui avrei potuto toccare il cielo con un dito.

Ma tutte queste cose sono passate, sono racchiuse nel mio cuore e non hanno certo bisogno di un memoriale fisico, come la casa dell'infanzia.
E quindi evviva! Mi arriverà la mia parte di eredità e potrò finalmente mettere l'ascensore in questa casa dove vivo felicissima con mio marito e il mio cagnolino (che anche ora dorme tra i miei piedi mentre scrivo queste righe).

Una porta si chiude, certe se ne aprirà un'altra!

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